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"IN VIAGGIO" - riflessioni quotidiane di Marina Corradi

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    00 02/01/2013 11:08


    Due ragazze in Terrasanta


    Terrasanta, primi anni 80. Due amiche ventenni vanno alla scoperta di Israele. On the road: auto a nolo, mappe, nei kibbutz a dormire. Nessuna delle due è credente. Una però si è portata una Bibbia. «Per documentazione», ha precisato.
    Girano Israele da Gerusalemme fino a Nazareth, giù nel Negev e oltre il confine egizio. Tacciono entrambe, una notte, attonite sotto la vertiginosa stellata del Monte Sinai. Quella che s'è portata la Bibbia continua a sfogliarla. Sul lago di Tiberiade contempla l'acqua calma e dice all'altra: pensa, quel tale è passato di qui. Nell'Orto degli Ulivi rilegge di Cristo solo, i suoi caduti nel sonno, e ripete: pensa, è successo qui. «Non capisco» replica l'amica continuando a scattare foto «perché ti interessi tanto». In effetti, nemmeno l'altra lo capisce.
    Le sembra quasi di stare camminando sulle tracce di quell'uomo, di cui peraltro ha solo un vago ricordo di catechismo, una memoria sbiadita e irrilevante. Eppure, come la seduce la stanza dell'Ultima Cena, in un silenzio tanto denso e forte che le pare assordante.
    Così, senza accorgersene, una di quelle due si mette in viaggio, cercando qualcosa che non saprebbe chiamare per nome. Ignara di quel frammento dei Pensieri di Pascal che dice: «Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato».


    Marina Corradi





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    00 03/01/2013 11:25

    Un male oscuro


    Milano, 1981. Un uomo si è barricato in un ufficio in centro e tiene in ostaggio gli impiegati. Minaccia una strage. Sotto al palazzo si va radunando la folla. Nella giornata grigia il lampeggiare intermittente delle volanti colora Milano di un blu surreale. Sirene, in lontananza. In un angolo, un crocchio di cronisti, il taccuino in mano. Non oso avvicinarli: oggi è la prima volta che dalla redazione mi mandano su un fatto di cronaca nera.
    La folla continua ad aumentare. Poi dall'alto, secco, uno sparo. Il folle ha ucciso un ostaggio. Lo fermeranno? La gente, sotto, attende, cupa, e sale la tensione.
    Finalmente la polizia blocca l'uomo. Eccolo, ammanettato, che esce dal portone. In quel momento un'onda percorre la folla. Scoppia, improvvisa, una rabbia furiosa; chi grida «ammazzatelo!», chi agita i pugni e spinge, e nella calca ti trascina. Solo grazie agli agenti lo sconosciuto scampa al linciaggio.
    Guardo sbalordita l'assembramento di milanesi in loden, con il Corriere sottobraccio, o in tuta da lavoro. Brava gente. Cosa in un attimo li ha contagiati e travolti? Che cosa alberga in noi, silenzioso, e, eccitato dalla violenza e dall'essere in tanti, viene alla superficie? Come un'antica violenza, un male profondo, radicale. Ma di questo male oscuro nessun giornale parlerà, domani.


    Marina Corradi

    - L'Avvenire -





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    00 04/01/2013 09:28
    Una ragazza come me


    Una ragazza come me


    Bologna, 23 dicembre '84 – Stanotte una bomba è scoppiata su un treno, in una galleria tra Firenze e Bologna. Dal giornale siamo partiti di corsa, dentro una gran nebbia. Io sono stata mandata all'obitorio. Al mattino vado a casa di una ragazza, che non si trova né fra i vivi né fra i morti. Tremo, nell'allungare il dito sul citofono di un palazzo borghese.
    Mi apre un signore che potrebbe essere mio padre. Dico che sono una giornalista, e mi aspetto che mi cacci via. Lui invece mi guarda assorto, poi: «Si accomodi, le preparo un caffè?».
    Io sbalordita mi siedo rigida su una poltrona. L'uomo si siede davanti a me. Sua figlia ventenne tornava da Firenze, era andata a comprare i regali. Di lei, dodici ore dopo, niente. «Vede – fa lui, calmo – mia figlia è un'atleta. Sarà scappata dalla galleria, sarà nei boschi, smarrita».
    Capisco che in quella assurda speranza il padre si va disperatamente cullando. E che devo tacere, e andarmene in punta di piedi, e non svegliarlo. Poi mi cade lo sguardo su una foto in cornice. Una ragazza bruna, i tratti da emiliana; un po' le somiglio. Ora, quell'uomo mi verrebbe da abbracciarlo. Possibile che ci si possa trovare, fra sconosciuti, così vicini? Come se nessuno, in realtà, ci fosse estraneo. (Della figlia verrà trovato, fra le lamiere, solo un anello).


    Marina Corradi





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    00 10/01/2013 11:51


    Il crepuscolo degli dèi


    Cernobbio, 1988 - I fotoreporter più giovani alzano i flash, nei saloni scintillanti di Villa d'Este, ma a bassa voce disorientati si domandano: e questo, chi è? Questo è Glenn Ford, e gli altri sono Robert Mitchum, June Allyson, Bette Davis e Joseph Cotten. Cinque vecchi divi di Hollywood assieme a Villa d'Este per una serata nostalgica degli anni 40.
    Le star dei nostri padri hanno ora ottant'anni. Osservo il lavoro del tempo sulle loro facce. Sono ancora belli, ma con un'ombra drammatica nei tratti, o nei grandi occhi pervinca di Bette Davis. Dalla vita hanno avuto tutto. Ma, ci dicono, nelle giornate in questo sontuoso grand hotel ciascuno ha a disposizione una Rolls Royce con autista, e se ne serve da solo. Ciascuno se ne sta nella sua sontuosa suite, da solo. Non si incontrano neanche per bere un tè. Non si telefonano neppure.
    Davanti ai flash sorridono, ma appena dopo sembrano assenti. Non felici, e neppure troppo lieti di essere ancora, dopo avere avuto tanto, sani e vivi. È amaro, penso, avere avuto il mondo nelle mani, e perderlo un giorno alla volta, invecchiando. Io, giovane cronista, lascio Cernobbio immalinconita da questo crepuscolo di dèi. Dunque né i soldi né il successo bastano, alla fine. (Gli splendidi occhi blu di Bette Davis, sotto il trucco, così stanchi).


    Marina Corradi






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    00 06/03/2013 10:59


    IL RESPIRO DI DIO


    Gulu, Uganda, 2006 - Al Lacor Hospital nel 2000 scoppiò la terribile epidemia di virus Ebola che fece strage di pazienti e medici. Oggi, sei anni dopo, il Lacor è un ospedale ordinato e pulito. Nei letti lenzuola candide e ravviate. I malati ci seguono, muti, con lo sguardo. Hanno l'Aids, o la malaria, o infezioni contratte nei campi profughi qui attorno, dove il popolo Acholi, tormentato da anni dai ribelli del Lord Resistance Army, consuma una vita miserabile.
    Le facce nerissime dei pazienti sul candore dei cuscini però sembrano serene. Al passare delle infermiere mi meraviglia che nessuno le ferma, nessuno chiede niente. Come se questi uomini fossero già increduli e grati di un letto pulito, del cibo, dell'acqua. Il silenzio di questo posto mette soggezione. Sembra un silenzio sacro.
    In una culla c'è un neonato piccolissimo. Dorme: il respiro irregolare e affannato gli fa sussultare bruscamente il petto. Quale male ha già ereditato, nel sangue? È così inerme, sembra un passero nel nido. Vorrei prenderlo in braccio, ma non si può. Resto a guardarlo a lungo, avvinta, ma solo andandomene lo riconosco: è l'Agnello, è l'innocente il cui dolore accompagna ancora la Croce di Cristo. Si esce zitti, domati, dal Lacor. Una culla nel fondo dell'Africa - e il respiro di Dio, così vicino.


    Marina Corradi






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    00 07/03/2013 08:07


    Preghiera da un assedio



    Gulu, Uganda, 2006 - Dell'Africa equatoriale sbalordisce quanto la notte cali rapidissima: come un brigante che piombi alle spalle, e ti sia addosso. In questo precipitare di tenebre, nella foresta attorno alla missione dei comboniani a Laybi i sentieri si affollano di passi: uno scalpiccio sempre più intenso di zoccoli e piedi nudi. Sono i night commuters, i pendolari della notte. Minacciata dai guerriglieri del Lord Resistance Army che rapinano, bruciano, rapiscono i figli, la gente dei villaggi a notte mendica protezione nel cortile della chiesa; che è piccolo, ma almeno ha un muro attorno. E, forse illusoriamente, questo popolo qui si sente meno indifeso.
    Ma quando la notte è del tutto nera, e stelle grandi il doppio delle nostre si accendono come fari nel cielo, i night commuters cominciano a pregare in lingua acholi. Non distinguo le parole, ma la cadenza sì: è il Rosario. La catena della preghiera è retta dal filo di una tensione radicale; è la domanda fissa negli occhi nerissimi delle madri, i bambini al seno. Salvaci, Padre, salva i nostri figli, ripetono quegli occhi scuri, mentre i bambini più grandi si rincorrono e strillano. Erano uguali le notti, nelle rocche assediate del Medioevo? Non avevo mai sentito pregare come da queste madri, inermi nella notte africana.


    Marina Corradi






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  • Lady Nocturnis.
    00 07/03/2013 09:28
    Scrive molto bene questa autrice, ha padronanza del linguaggio e una struttura agile nel racconto.
    Dice:"Erano uguali le notti, nelle rocche assediate del Medioevo? Non avevo mai sentito pregare come da queste madri, inermi nella notte africana.


    Se consideriamo il medioevo come un fatto storico senza dubbio v'è una verità che accomuna tutti i tempi e tutte le latidudini.
    Ogni ieri è il medioevo del domani in cui tutto ciò che è stato fatto diventa esperienza.
    In fondo il recupero della conoscenza antica viene utilizzato per formare il nuovo medioevo che viene definito retronuevo si pregava allora come oggi.
    [Modificato da Lady Nocturnis. 07/03/2013 09:35]
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    00 08/03/2013 11:43



    «ERA BELLA, KABUL»



    Kabul, aprile 2006 – Camp Invicta era una caserma sovietica. Si vede: blocchi di cemento nudo, sgraziati, già sbrecciati dal gelo dell'inverno afghano. Nella mensa invece è Italia profonda, nell'odore di sugo, nelle canzoni di Ligabue, nel Crocefisso sul muro, con il suo ramo d'ulivo. Alpini del Nord Est e ragazzi del Sud, sono i nostri. Bella gente, di poche parole.
    Quando si esce in perlustrazione con gli autoblindo sulla Jalalabad road ci si trova in una coda infinita di enormi Tir infangati, colorati come giostre, in arrivo dal Pakistan, e miserabili carretti tirati da somari. Bambini stretti al burka blu delle madri, e polvere: una finissima polvere di deserto, che brucia la gola.
    Sobbalzando su buche come crateri si entra in città. Chi avrà distrutto queste case, i russi o i mujahidin o Enduring Freedom? Poco importa. 25 anni di guerra. Metà degli afghani non sa cos'è, la pace.
    Amin Zai, l'interprete, prima dell'arrivo dei sovietici era un insegnante. Fuggì in Italia con la famiglia; tornò, quando credette il Paese liberato. Ma vennero i mujahidin, e poi le bombe americane. S'infiamma di speranza, il professore, quando parla della nuova Costituzione. Poi, guardando la città devastata dice piano: «Era bella, Kabul, sapete». Come una preghiera, in memoria di una sposa perduta.


    Marina Corradi





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    00 09/03/2013 08:28

    NEL DESERTO DEI TARTARI


    Herat, Afghanistan, aprile 2006 - Attorno alla caserma di Camp Vianini la città stasera è tranquilla. Nel cortile, strani, i peschi in fiore tra i blindati. Noi giornalisti in visita alle forze italiane ci raduniamo attorno all'ufficiale che ci ha scortato per l'Afghanistan, uomo silenziosissimo. Ma questa è l'ultima sera per noi a Herat, e il capitano Cavallaro si lascia andare. Storico per passione, ha scritto un libro sulla battaglia di Montecassino, e ancora adesso va a cercarne gli ultimi superstiti, per farsi raccontare. Nella notte che avanza, tiepida, il capitano rievoca quella lontana aspra battaglia, come ci fosse stato. E noi a ascoltare, affascinati, avvinti.
    Da un muro di cinta il bagliore giallo degli occhi di un dingo in cerca di cibo insinua una nota di inquietudine: forse questo è un deserto dei tartari? Dove si può solo aspettare. Poi, a notte fonda, lontano, un boato. Come qualcosa che bolla, sotto a una fragile pace.
    L'indomani torniamo in Italia. Tre giorni dopo l'Ansa riferisce di un attentato kamikaze a Camp Vianini. I due soldati afghani di guardia al portone sono morti: quelli che al mattino ci dicevano «ciao», in italiano. I tartari, infine sono arrivati. O forse già vegliavano attorno alla caserma? Come quel dingo dagli occhi gialli, silenzioso, appostato.


    Marina Corradi






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    00 11/03/2013 11:16


    Uno sterminato orizzonte



    Albacete, Spagna, luglio 2006 - Da qui a Toledo la Mancha si allarga sull'altopiano della Meseta. Una distesa all'apparenza infinita di terra piatta, bruciata, all'orizzonte lontane colline rosse. La strada è dritta e deserta, il sole è proprio sopra di noi, e attorno solo l'estate, torrida. Dai sedili posteriori tacciono i ragazzi, affascinati e inquieti. Questo deserto ci incute soggezione. Vai, vai, e nessuno. Rare fattorie candide, isolate. (Com'era, un tempo, vivere qui tutta la vita?). Qualche vecchio mulino a vento, le pale ferme nell'aria bruciante.
    Finalmente un villaggio: quattro case, una chiesa, un bar vuoto. Perfino le mosche dormono sui vetri, a quest'ora.
    E poi di nuovo la strada per Toledo è una retta che si perde all' orizzonte. Un grifo vola adagio in tondo, cercando una preda. Un gregge pascola sotto lo sguardo di un vecchio immobile. Nel cielo di zaffiro non c'è la minima traccia di nuvola. Che cosa è splendido, e nello stesso tempo spaventa nella Mancha riarsa?
    Qui non ci sono fiori di cui meravigliarsi, né foreste in cui perdersi, né città in cui incontrarsi, o mercati dove scambiare ricchezze. Qui non c'è niente. C'è solo il proprio respiro, e uno sterminato orizzonte. Nella Mancha è evidente, che vivere è un'attesa. E si tace dunque, come davanti a ciò che è sacro.


    Marina Corradi






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    00 12/03/2013 09:44


    IL POSTINO E LE AQUILE


    Penne (Pescara) 2007 – Dodicimila abitanti sotto la mole del Gran Sasso. Ogni dieci passi, una chiesa: sotto il Regno delle Due Sicilie, la città era sede vescovile. Gliene rimane questa gravità austera, e la chiesa madre maestosa, sull'orizzonte delle colline.
    Cos'è successo a Penne? Niente. Sono qui a cercare un'Italia di provincia, quieta, senza alcun dramma, o scandalo. Un'Italia in pace, invisibile sui giornali. Nel bar della piazza gli avventori giocano a carte, i bicchieri colmi di trebbiano d'oro. Per i vicoli, a mezzogiorno, profumo di sugo, clangori di padelle sul fuoco. Nei giardini rose che si sporgono tra le sbarre, curiose. Occhi verdi di gatti che ti fissano. Biciclette appoggiate ai muri, senza lucchetto. Dai balconi pendono già asciutte, rigide, le lenzuola stese, e tu ne sai, da lontano, il profumo.
    Seguo il signor Orazio, il postino, nel suo giro. Per una sola lettera raggiunge cascine solitarie, dove latrano i cani alla catena. Più tortuose le strade, man mano che ci si avvicina al Gran Sasso. A una curva Orazio si ferma, indica uno strapiombo nel vuoto: «Per di qui, vede, certe mattine ho visto i piccoli delle aquile spiccare il primo volo».
    Un postino innamorato delle aquile. Anche questa è Italia, silenziosa. Invisibile sui giornali, eppure grande, e vera.



    Marina Corradi






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    00 13/03/2013 10:03


    UN POZZO D'ACQUA VIVA



    Milano, 2007 – «Da ragazza, se mi piaceva un fiore, avrei voluto addirittura mangiarlo». In una stanza d'ospedale mi imbatto nel Diario e nelle Lettere di Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz. Sorrido: anch' io, da bambina, trovavo le rose così belle che le avrei mangiate.
    Ma nell' Olanda occupata dai nazisti, mentre i suoi amici vengono deportati, Etty attraversa una straordinaria metamorfosi: «Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c'è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo coprono: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri». Quale misteriosa strada si è aperta in una ragazza vivace, libera, quasi sorella delle adolescenti degli anni 70? (Il passo della Carità nella Lettera ai Corinzi induce lei, ebrea, a inginocchiarsi, in un gesto che non le è stato tramandato).
    La storia erompe, tragica. Etty accompagna al treno un amico che parte per il nulla. In una notte come questa – scrive – bisognerebbe solo inginocchiarsi e pregare. Infine è il suo treno, a partire: «Ho aperto a caso la Bibbia: "Il Signore è il mio baluardo"».
    Una sorella più grande: una che da ragazza, vorace di bellezza, voleva mangiarsi i fiori. Un giorno ha scoperto in fondo a sé un pozzo; e avidamente ne ha bevuto l'acqua viva.


    Marina Corradi






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    00 14/03/2013 10:02


    Lei, all'alba, in pace


    Milano, marzo 2008 - Le otto di sera. Nelle case di fronte la gente è a cena dietro le finestre illuminate. Qui, nel reparto non autosufficienti di una casa di riposo, le luci sono già spente. Nessuno, nei corridoi odorosi di disinfettante. I ricoverati dormono, le sbarre del letto rialzate. Sui comodini pile di pannoloni, come quelli dei neonati, solo più grandi. Ottant'anni, tra un'infanzia e l'altra. Ma nessuno vezzeggia questi vecchi bambini, così ossuti, sgraziati. Nel sonno uno si agita: «Mamma! Vieni!», grida. Dalla stanza degli infermieri voci basse, risate - la vita che si insinua in questo limbo, clandestina. Le lancette dell'orologio a muro, immobili.
    L'ossigeno scorre con un suono d'acqua. La paziente più anziana respira a fatica. A tratti alza il busto, contrae le mani, nel fiato che manca. Il volto estenuato sembra chiedere pace; ma il cuore non si arrende, e batte disordinato, e fa sussultare il magro petto. Il cuore riottoso si ostina, scalcia - come se tutto, in noi, si ribellasse alla morte.
    La paziente più anziana è mia madre, e io la veglio attonita: rivedendo i suoi begli occhi, e la mano che stringeva la mia, da bambina. (Stanotte, è come se mi venisse strappata da sotto i piedi la terra).
    Lei, all'alba, in pace - il volto pallido da Madonna antica.


    Marina Corradi






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    00 15/03/2013 10:12


    UNA STORIA NUOVA


    Lampedusa, settembre 2008 - La motovedetta della Guardia Costiera salpa in soccorso di un barcone alla deriva, al largo. Sotto al sole cocente di mezzogiorno navighiamo veloci per mezz'ora. Finalmente un punto all'orizzonte. Eccoli, i naufraghi: un centinaio di uomini, donne, bambini su un gommone immobile fra le onde, che affonda sotto al loro peso. Mentre accostiamo cento occhi neri ci fissano, e nessuno dice una parola. Salgono sulla motovedetta, e tacciono: non uno che chieda acqua, o cibo. Solo una donna con un figlio in braccio piange, piano. Sfiniti i naufraghi, increduli d'essere salvi, dopo tre giorni - e tre notti, nell'infinita tenebra del mare.
    In lontananza si intravvede appena una linea all'orizzonte: Lampedusa. I naufraghi la fissano come un'apparizione. Uno tira fuori un tappetino fradicio e si inginocchia sul ponte, a pregare. Un altro da uno zaino estrae un Vangelo in inglese, che gocciola acqua di mare. Esausti, miserabili, gli stranieri ringraziano Dio d'essere vivi, e in Europa. Come, forse, i coloni irlandesi, inglesi, fuggiaschi magari, o galeotti, quando scorgevano la costa del Nuovo Mondo.
    Noi vecchi, noi avari di figli, noi ricchi; e giovani affamati popoli che sbarcano in Europa. Sul molo di Lampedusa la cronaca mi pare Storia, che incomincia, nuova.


    Marina Corradi






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    00 15/03/2013 14:07

    Marina Corradi è giornalista. Il suo scrivere è fluido, vivo e interessante. Trovo le sue riflessioni uno stimolo alla mia riflessione e, attraverso i suoi occhi, ciò di cui parla acquista nuova luce e ricchezza.

    Così la riflessione di oggi sui profughi che toccano le nostre rive dopo una traversata terribile, fra stenti e fatica inumane.

    Anche in passato ci sono stati naufraghi con il cuore colmo di speranza, su altre rive, richiesta di accoglienza ad altri popoli.

    E la cosa continua...




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    00 16/03/2013 09:43


    LE SCARPE DEL CURATO


    Ars-sur-Formans, marzo 2009. Il paese del Curato è ancora un grappolo di case, perso tra le colline del Dombe. È un martedì, piove, e non c'è nessuno nella canonica di Jean-Marie Vianney. Mi affaccio: stanze spoglie, muri di pietra, un focolare annerito. La casa del santo è abitata solo dal vento: che stamattina soffia così forte, con una voce scura. Scuri anche i vecchi mobili; e il crocefisso nella stanza da letto, di questa antica povertà il silenzioso signore. Fatico, tra queste cose morte, a immaginarmi quel prete, vivo.
    Ma l'occhio mi cade su degli oggetti amorosamente conservati. C'è un ombrello nero, col manico grosso: quello sì, me lo vedo, in una mattina di marzo come questa, lucido di poggia, oscillante sui passi del parroco. E, accanto, le scarpe: un paio di grosse scarpe indicibilmente sformate. Anche le scarpe le immagino, per sterrate fangose, o nella polvere della siccità d'agosto, all'alba, in marcia verso il capezzale di un moribondo. Quanta strada devono avere fatto, queste scarpe. Ma, mi pare di averle già viste. (I ricordi, come i sogni, sono anarchici: vengono su senza ordine alcuno). Don Benzi, ecco, a don Oreste ho visto addosso delle scarpe così, nere, grosse, sfatte dall'andare. (Sono cari a Dio, penso, gli uomini che camminano per abbracciare).


    Marina Corradi





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